World Press Photo – una riflessione sulle foto finaliste

Cambiando un modus operandi consolidato negli anni, l’edizione 2018 del World Press Photo ci presenta, oltre ai vari “nominees” nelle molteplici categorie, il preview delle 6 fotografie in lizza per diventare “foto dell’anno”. Non “la foto vincintrice” ma il parterre da cui verrà nominata, il 12 Aprile, la vincitrice finale.

Certamente si tratta di immagini interessanti dal punto di vista della composizione. Altrettanto certamente quello che appare ovvio focalizzandosi sul contenuto e sul messaggio, è che sono tutte immagini “forti”, immagini da “pugno nello stomaco” – come candidamente dice uno dei giurati (Thomas Borberg) nel video che accompagna la selezione – e TUTTE rappresentano sostanzialmente due cose: sofferenza e dolore.

Tutte e 6.

Mi viene in effetti voglia di chiedermi se il 2017, dal punto di vista del fotogiornalismo, sia stato solo (o almeno prevalentemente) sofferenza e dolore. E con questo non voglio sminuire affatto quanto accade nel nostro mondo e quante volte abbiamo dovuto riflettere su questi eventi nei mesi passati.

Certo, a guardare gli altri nominees, lo spettro di soggetti si ampia, e i temi spaziano. Eppure, paradossalmente, il selezionare 6 foto finaliste “tutte di un tipo”, fa riflettere dal punto di vista di quanto questa giuria voglia “lasciare” come immagine iconologica dell’anno passato visto che, alla fine, nell’immaginario collettivo, le “foto dell’anno” del World Press Photo dovrebbero, a mio avviso, convogliare in se il senso dell’anno trascorso.

Ripeto: non voglio affatto sminuire quanto accade nel nostro mondo: attacchi terroristici, guerre, disastri naturali. Ma è altrettanto vero che se guardo il mondo dal punto di vista prettamente statistico mi viene da pensare che, per fortuna, si tratta di storie che affliggono direttamente una parte percentualmente bassa della popolazione mondiale e che, se guardiamo i numeri rispetto a dieci o cento anni fa, il mondo è certamente diventanto un posto più sicuro e più sano. Il che non vuol dire che le brutte cose non accadono e non bisogna stigmatizzarle: al contrario va fatto e non può essere dimenticato.

Però non nascondo che avrei voluto vedere, tra le 6 foto, qualcuna di tipo un po’ più “ottimistico” e mi viene di pensare che, probabilmente, se invece avessero tirato fuori “di botto” la foto vincitrice, come negli anni scorsi, avremmo potuto disquisire solo sul risultato e non sul processo che porta al risultato.

Alla fine, visto che i contenuti sono sostanzialmente “da pugno allo stomaco”, come sceglieranno le foto migliori? Solo su criteri estetici? O sulla rilevanza della storia di sofferenza a cui si riferisce?

Di certo avremo un terzetto di immagini che lascerà ai posteri un’immagine di un mondo che non migliora perchè guerre, disastri e sofferenze sono quanto il fotogiornalismo moderno incorona. Così, come molti siti hanno fatto, queste immagini mertiano un disclaimer del tipo:

This slideshow contains graphic and disturbing imagery that is not suitable for children, and may not be suitable for viewing in the workplace. Proceed with caution.

Dal punto di vista del fotografo, poi, bisognerà rassegnarsi: o si va a fare queste fotografie oppure meglio lasciar stare i sogni di gloria (disclaimer: non ho partecipato al World Press Photo, quindi non c’è alcuna “invidia” in quanto scrivo).

In questo senso mi torna alla mente la bella immagine che ha vinto il contest nel 2014: migranti con i cellulari in alto a captare segnali. Migranti sì, ma in un gesto di comunicazione, comunione e speranza.

Ma quella, certamente, era un’altra giuria.

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