The Other America (2007)

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America is sometimes different from certain stereotypes we, as Europeans, are used to see. Abandoned places, old cars in beautiful natural contests. Out of metropolitan areas America has different color and produces different vibrations. Other colors, other feeling, the Other America.

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L’America è certe volte diversa da certi streotipi a cui noi europei siamo abituati. Posti abbandonati, vecchie macchine in splendidi contesti naturali. Fuori dalle aree metropolitana l’America ha colori differenti e produce differenti vibriazioni. Altri colori, altre sensazioni, L’Altra America.

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  1. L’America. L’America dell’entroterra, delle sconfinate lande che si perdono oltre l’orizzonte, l’America dalla terra rossa e polverosa, squarciata sporadicamente da qualche highway, l’America di Easy Rider, l’America di Arizona Dream, l’America che colma quel vasto spazio decadente tra New York e Los Angeles, l’altra America. Fuori dalle grigie metropoli, si aprono i colori di Zabriskie Point, l’uomo si nasconde dal progresso e viene inghiottito dalla natura, concedendosi solo in occasionali rigurgiti. L’uomo spunta in questo nulla come seme stesso della terra, rara pianta in un immenso deserto. E quasi sempre, esso è antico. L’uomo dell’altra America ha tagliato le redini, lasciato correre i cavalli delle nuove fuoriserie e fermato per sempre la sua vecchia Cadillac. L’uomo dell’altra America cresce in un set abbandonato di Happy Days. L’uomo dell’altra America è in bianco e nero. L’occhio sapientemente pitta la terra acre e l’erbaglie disperse, affresca la volta celeste con maestria. Ma l’uomo, rimane avvolto dal bianco e nero. Immobile, perenne, decadente e monumentale. L’uomo che non ha l’aspetto di un vecchio ciondolante su di una sedia a dondolo, che sputa tabacco e ascolta la radio; qui l’uomo ha la faccia delle cose. Le sue cose. Memorie di quando era ancora uomo, prima di divenire un tutt’uno con la terra. L’uomo inghiottito dalla natura scompare nel suo grembo e ne diviene partecipe, simbiotico. Annullata la sua individualità di uomo, ciò che rimane, traccia di un suo passato ancestrale, sono le cose, pregne di ricordi.

    Foto 1

    Come un fragile scheletro di tirannosauro ci comunica inalterata la possanza e la ferocia della creatura estinta, la carcassa di questo furgone conserva la memoria di un antico splendore. Pesantemente adagiato su se stesso, sembra attendere con pazienza e rassegnazione la sua definitiva fine; il radiatore, che ci si aspetta di veder crollare da un momento all’altro, è lacrima nostalgica del tempo che fu. La solennità di questa scena quasi funebre è aumentata dall’incombenza cupa di nubi cariche di pioggia, pronte ad inondarci di commiserazione, e la costruzione dietro sembra già lapide, ultimo baluardo di un’età dispersa nel passato.

    Foto 2

    Il tempo, vorace predatore, ha serrato le sue fauci su questo furgone, azzannato e asportato lembi di vita. Si condividono con lui i ricordi tipici degli ultimi istanti, si ripercorre la sua gioventù, quando montato da un cafone indigeno, scorrazzava, come un bufalo, vero padrone di un mondo senza confini.

    Foto 3

    Appoggiata ad un palo, bastone della sua vecchiaia, una cabina telefonica. Vorrebbe raccontare di quando Hitchcock la scelse per una scena di un suo film, o di quando James Dean appoggiò le sue labbra sul suo telefono. Jimmy Dean morì giovane e bello, questa cabina non ha avuto stessa fortuna. È dovuta invecchiare, trascinarsi sino ad ora. Neanche più ha il telefono.

    Foto 4

    Rhyolite Mercantile. La scritta si legge ancora. La profondità prospettica data dalle nuvole pesanti e dal terreno, grazie alla stradina che scompare e a qualche tronco scuoiato, ci inglobano e ci proiettano velocemente nella scena. Ma la costruzione, terribilmente bidimensionale, ci frena di colpo. Sembra di andarci a sbattere contro. Rallentiamo. Di fronte a noi questa lapide gigante. Rhyolite Mercantile. Ma poteva tranquillamente esserci scritto “qui giace…”. Mettiamo il piede sul primo gradino, esitiamo. Ci reggerà? Torniamo indietro. Abbiamo paura. Paura di aprire la porta e scoprire che dietro c’è il vuoto. Paura di compromettere un qualcosa che ci appare altamente fragile ed instabile. E allora sediamoci sulla panchina, fumiamoci una sigaretta, anche se non fumiamo, e teniamo d’occhio la strada: prima o poi ripassera Jimmy Dean!

    Foto 5

    Il clima funebre delle foto precedenti viene momentaneamente spezzato. Qui c’è la vecchiaia allegra, gioiosa, non quella che precede di pochi istanti la morte. Qui c’è la seconda giovinezza. Il sole riprende a illuminare i volti che si riempiono di sorrisi. La sabbia è immancabile richiamo alla spiaggia, il mare, l’estate, il divertimento infantile. Questa è la terza età che si riscopre infantile, appunto. Certo, non ci sono più le energie di una volta, i giovani d’oggi corrono a ritmi insostenibili, ma c’è la spensieratezza, l’allegria e la voglia di godersi appieno la vita. Così ci rilassiamo, dopo le prime foto. Un sorriso ci viene, impercettibile e spontaneo. I ricordi che la scena evoca non sono più nostalgici e andati, sono vivi più che mai. Note di rock’n’roll escono rumorose dalla casupola del benzinaio. Elvis? No, è Buddy Holly! Non inquadrati, adolescenti Cunningham hanno parcheggiato, e ballano frenetici alle nostre spalle. Il benzinaio pure, è nascosto da qualche parte la dietro, attendiamo che esca e faccia il pieno, e intanto vien voglia di girarsi e ballare anche noi…

    Foto 6

    Quando ci giriamo però la musica sompare. Il silenzio del vento la sovrasta. Non più le note armoniche della chitarra di Buddy Holly, ma lo stridere agghiacciante della tettoia piegata, il fruscio lento, costante e monotono delle siepi, il fischio del vento. Si sente l’odore dell’umido. Il vento porta acqua. Lacrime che si abbatteranno violente ed irrispettose su questa vuota costruzione. Già traballante ed insicura di suo, spettinata dal vento, si prepara all’acquazzone. Non c’è la forte incombenza della fine, ma c’è l’anticipazione di questa sensazione. È il profumo del sugo che produce salivazione e anticipa la fame. C’è la preparazione all’incombenza, ma c’è serenità. Non c’è la tensione drammatica delle prime foto, c’è piuttosto un’attesa rilassata e consapevole. Si potrebbe quasi pensare che questo edificio sdentato sia buddista, dove per buddista non si intende più la religione ma la religiosità, la coscienza che la morte non è contrapposizione alla vita ma parte di essa.

    Foto 7

    Noi passeggiamo estranei in quest’altra America. Siamo visitatori. Se camminiamo rispettosi della storia del luogo, questo aprirà le sue braccia e ci ospiterà al suo interno, raccontandoci tutto di sé. La superficialità ci farebbe scorgere solo un vecchio distributore, e probabilmente gli gireremo le spalle stizziti perché non siamo riusciti a leggervi il prezzo dell’epoca. Se siamo umili e attenti nei nostri passi, se rispettiamo il luogo come fosse un sacro monastero, ecco che esso si mostrerà a noi in tutto il suo splendore. Ed ecco che all’interno del distributore si apre una visione. Se potesse esserci una telecamera in grado di trasmettere immagini attraverso il tempo, vedremmo proprio ciò ce ci mostra il distributore. Siamo stati bravi, non abbiamo profanato la zona, abbiamo cercato di comprenderla senza comprometterla, ed essa si è data a noi pienamente. Io personalmente sono sazio di questa sensazione, e me ne vado riconoscente e orgoglioso.

    Foto 8

    L’attesa. La consapevolezza dell’inevitabilità, il suo fiato sul collo. La tensione delle prime foto. Qui non c’è tensione, invece. Non c’è attesa. Queste carovane hanno già subito l’attacco di indiani, e riposano goffe ed incuranti. C’è persino comicità nella scena. Come cuccioli che dormono abbracciati, una tenerezza materna ci coglie. Copriamoli, che hanno freddo. Forte il monte alle loro spalle veglia su di loro dall’alto, solenne. Il piccolo arbusto davanti a loro è un fiore, è i mille papaveri rossi, ornamento e caldo abbraccio. Ce ne andiamo sereni: la natura custodisce e protegge questi figli adottati.

    Foto 9

    Sino ad ora ci siamo mossi in silenzio, in contatto con l’ambiente, affinché esso si mostrasse a noi nel suo essere naturale. Non è facile. È il tentativo di sentire il rumore dell’albero che cade quando non c’è nessuno, la nostra presenza stessa rende impossibile questa cosa. Quanto più siamo discreti e rispettosi, però, tanto più ci avviciniamo a questo nirvana. Adesso però, è successo qualcosa. La nostra presenza è stata scoperta. Siamo elementi estranei ed è impossibile per l’ambiente non interagire con noi. Accortisi della nostra presenza, i tre distributori si mettono in posa. Dietro di loro, in quell’alveare esagonale, qualcuno ci trufferà qualche quattrino. Ma pazienza, accontentiamoci del fatto che il distributore Shell non ha guardato in camera, e nei suo occhi si può cogliere il riflesso della zona alle nostre spalle, quella intatta.

    Foto 10

    Ancora il luogo è conscio della nostra presenza e si mostra a noi con meno naturalezza. Non si mette in posa, stavolta, ma sa di noi. Pertanto cerca di tirar fuori dalla sua decadenza senile il massimo della dignità. Gomma a terra, vernice che si dilegua, questo canuto e vecchio zoppo non ci guarda, finge di non vederci, ma sa di noi. Non nasconde le sue stempiature, non è una vecchietta che si ricopre di trucchi per sembrare più giovane, cadendo nel ridicolo. No, è proprio il ridicolo che vuole evitare. È fiero delle sue cicatrici perché guadagnate con onore, non nasconde la sua età, ma anzi gonfia il petto, e lascia che siano esse a parlare per lui. Come un nonno che prende i nipotini sulle ginocchia e racconta le sue passate avventure, i segni d’usura ci cullano e ci lasciano immaginare storielle romanzate, scorribande adolescenziali, forse senza aver neanche mai visto l’asfalto.

    Foto 11

    Pausa. Ormai il luogo ci ha scoperti, prendiamoci un po’ di relax. Siamo nel camioncino a gustarci il panorama. È vero, se davvero fossimo là, vedremmo solo il panorama, noi invece vediamo anche il furgoncino. Ma è proprio questo che dà la sensazione di essere nel furgoncino. Esso è leggermente inclinato, ci fa capire la profondità di un luogo che altrimenti sembrerebbe troppo piatto, ci fa capire la sua vera immensità. Spicca in bianco e nero sulle sfumature grigie del paesaggio: il furgoncino è decisamente un elemento estraneo all’ambiente. Noi siamo là perché noi siamo estranei. Eppure il furgone, caricato dalle forti emozioni viste sino ad ora, sembra irrequieto, giovane puledro pronto a rituffarsi nella vita selvaggia. Guarda le ciminiere fumanti, ma le sue ruote già voltano alla libertà.

    Foto 12

    Lo sguardo triste di un animale in gabbia. I suoi simili, lasciati morire nella stessa gabbia, e la sensazione di una vecchia macchina che è stata tolta anzitempo alla strada. È molto bello il metallo. In questa foto è presente in tanti modi. Piccolo e filiforme, nella rete, lamine dimenticate, nella lattina in basso. Ma soprattutto opaco e lucido, nelle carrozzerie delle autovetture. La sensazione è di immobilità. Non sembra esserci forza alcuna in grado di modificare lo stato di perenne immobilità della scena. Solo il vento, che soffia lento e costante, il vento che scava la roccia, solo il vento sembra poter cambiare qualcosa. Ma non ora. In tempi lunghi, il vento lavorerà instancabile e cocciuto con piccoli colpi, e un giorno qualcosa si muoverà, con un inevitabile rumore metallico.


    Foto 13 e Foto 14

    È tempo di tornare via. Questo dicono le ultime due foto. Facciamo i bagagli, recuperiamo la nostra roba, e lasciamo che il posto ritrovi la naturale stasi. Il sole già si abbassa, e noi ce ne torniamo cercando di smuovere meno polvere possibile. Sullo sfondo le rocce erose sembrano raccontarci quale destino attende il luogo, i venti inesorabili andranno a scalfire, a sollevare sabbia, a raschiare e usurare, a seppellire ciò che sopravvive all’erosione.

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