Steve McCurry e Raghubir Singh: guardare o rendere giustizia?

Mi sono trovato, ieri, a leggere due diversi articoli che, partendo da presupposti differenti, si sono sovrapposti ed incrociati al punto da spingermi a scrivere questa nota. Il primo, in ordine cronologico di lettura, è stato il contributo di Teju Cole sul NYTimes, il secondo l’editoriale di Franco Carlisi che introduce il numero 64 di Gente Di Fotografia.

Cole parla di Steve McCurry e della fotografia dei suoi seguaci definendola “too-perfect”, troppo perfetta e sostenendo, in pratica, che quel modo di vedere il mondo, che tanto successo ha avuto, si limita a rappresentare una realtà con gli occhi di chi guarda un posto lontano (nel caso in oggetto l’India) con tutti i cliché tipici che il luogo può avere per noi occidentali: santoni, templi, uomini con barbe bianche. Fotografie, dice Cole, enormemente noiose. Una visione che, non tanto nella singola fotografia ma quanto nella pluralità delle varie foto indiane, l’autore definisce “fantasy”, romanzata appunto, ossia non capace di rendere giustizia ai soggetti che invece, per Cole, è raccontata in modo molto più efficace da fotografi “oriundi”, come l’indiano Raghubir Singh, e da altri che conoscono posti e persone in modo più intenso e vibrante perché i soggetti fanno parte della propria vita.

Non è un’apologia delle capacità e dell’arte dei fotografi che si confrontano primariamente con la realtà in cui vivono visto che Cole afferma che tanti altri fotografi occidentali, come Mary Ellen Mark nel lavoro sulle prostitute di Bombay, sono riusciti a raccontare magistralmente posti remoti.

È un tentativo, a mio avviso coraggioso e, francamente, condivisibile, di ricollocare più correttamente McCurry su un piano generico, rassicurante e, appunto, romanzato, di guardare il mondo: come quando si legge un romanzo di cassetta e poco dopo ci si dimentica titolo e trama.

E, con McCurry, tutta quella fotografia di tipo direi “iconologica” che, prevedrebbe, se rigirata in salsa nostrana, i cliché dei padrini o delle feste religiose in Sicilia. È’ un modo di raccontare buono per una favola per bambini, fatto attraverso il filtro di come ci aspettiamo che “dovrebbe essere” un determinato luogo  nell’immaginario comune, come se in India o in Sicilia nel frattempo non fossero avvenute tutte le cose accadute altrove e che hanno portato il mondo tutto ad essere molto più omogeneo e, anche se spiace dirlo, meno “localmente” peculiare. Cole sostiene, e sono d’accordo, che nel “ritagliare” il pezzo di realtà che si vuole rappresentare è necessario considerare la commistione tra passato e presente che sia rispettosa della complessità della realtà in cui vive il soggetto delle fotografie.

Nei pensieri che ha suscitato questo articolo, che segue una mia spedizione a Trapani per la Settimana Santa, riflettevo su quanti luoghi comuni e favole che tante volte, da fotografi, raccontiamo. “L’annacata”, i portatori dei Misteri uniti ed abbracciati che si muovono al passo di una marcia funebre mentre portano un simulacro del 1700.

Centinaia, migliaia di fotografie “fantasy” che, se forse interessanti per chi di certi usi è costumi non ha familiarità, sono in effetti l’ennesimo “entertainment” dove rimane poco, se non l’espressione di un viso particolare, due occhi belli e simili alla ragazza afgana di McCurry pubblicata sul National Geographic di Giugno 1985: “trovate”, appunto, ma con poco reale contenuto.

Fotografie belle (forse) ma deboli, per dirla con Cole “che mandano un rapido messaggio – dolcezza, pathos, humor – ma falliscono nel fare di più, quando di più è quello che siamo.” E, forse, aggiungerei, buone nel 1985 ma abbastanza desuete trent’anni dopo.

E così, immerso in questi pensieri che mi riguardano personalmente anche in quanto convinto delle possibilità infinite di un autore “oriundo” di raccontare in modo appropriato la propria realtà, leggo l’editoriale di Gente di Fotografia. Carlisi, che conosco e stimo da tempo, interrompe il flusso delle mie considerazioni parlando del costume italiano di collocare la fotografia nelle librerie negli scaffali vicini ai libri di cucina. A differenza di quanto accade in America dove gli scaffali di libri sono contrassegnati da “fiction” e “literature”. Con la fotografia generalmente vicina a “literature”, in quanto permeata almeno della stessa densità comunicativa.

Non in Italia dove la scelta, non casuale, finisce per autorizzare, dice Carlisi, “il lettore sprovveduto a considerare l’argomento di puro intrattenimento, di svago”. E quali libri vengono dati in pasto al lettore italiano: “autori storicizzati del reportage, della moda e dell’immancabile National Geographic”. Eccola di nuovo la “fantasy” di Cole e, con lei McCurry, che, peraltro, con molte mostre aperte in Italia sta diventando, come fa correttamente notare Smargiassi su Repubblica.it, più presente della spezia presente nel suo cognome.

“Il lettore sprovveduto”, dice Carlisi. Ma quante persone vogliono provare (o semplicemente hanno gli strumenti), nella fruizione di una foto o di un’opera d’arte, ad andare poco poco oltre la pellicola delle apparenze? Quanti non sono sempre e comunque più attratti dal primo piano colorato in giallo e rosso di un Santone indiano piuttosto che dal comprendere lo sforzo di chi propone una visione più articolata e, di conseguenza, più difficile? Quanti milioni di like e di followers ha McCurry e chi conosce Sighn?

Se è vero che i Social sono lo specchio della società e, di conseguenza, un ricettacolo variegato di ogni istanza è altrettanto vero che la Cultura, quella con la ‘C’ maiuscola, necessiti un livello di approfondimento che deve passare anche per altri canali, anche attraverso l’opera di una mediazione culturale come quella che Cole fa nel suo articolo, gridando non tanto che il “Re è nudo” ma piuttosto che, se non altro, il “Re è cieco”.

Ed io, come autore, devo pormi il quesito di “piacere alla massa” o di fare quello che sento, che, nel mio caso, come chi ha avuto la pazienza di leggere fin qui, è più Sighn che McCurry?

La domanda, semplice, ha a mio avviso un’unica risposta che ha a che fare con la “coerenza della visione” di ognuno di noi. Anche se questa coerenza, spesso, cozza con fama, gloria e likes.

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